L’istituto dell’acquisizione-sanante di cui all’art. 42 bis, D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 si applica a tutte le ipotesi in cui un bene immobile altrui sia utilizzato e modificato dall’amministrazione per scopi di interesse pubblico, in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, e dunque quale che sia la ragione che abbia determinato l’assenza di titolo che legittima alla disponibilità del bene.
Il giudicato restitutorio (amministrativo o civile), inerente all’obbligo di restituire un’area al proprietario da parte dell’Amministrazione occupante sine titulo, non preclude l’emanazione di un atto di imposizione di una servitù, in esercizio del potere ex art. 42 bis, comma 6, DPR 8 giugno 2001 n. 327, poiché questo presuppone il mantenimento del diritto di proprietà in capo al suo titolare (Cons. Stato, A. P., 18 febbraio 2020, n. 5).
Con i principi di diritto richiamati in epigrafe, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato definisce le questioni giuridiche deferite al Collegio con ordinanza di rimessione della Sezione remittente, dinanzi alla quale il ricorrente – parte controinteressata nel giudizio di primo grado – ha proposto appello avverso la sentenza del giudice di prime cure, che ha annullato la delibera dell’Amministrazione, dichiarativa della pubblica utilità del fondo nella proprietà degli originari ricorrenti, sul quale ha imposto una servitù di passaggio (T. A. R. Marche – Ancona, Sez. I, 24 luglio 2018, n. 520).
Il contratto di vendita del bene immobile già sottoscritto dall’Amministrazione comunale con gli odierni appellati, preceduto da un “compromesso condizionato di vendita”, infatti, era stato dichiarato nullo dal Giudice civile, sebbene la pubblica Autorità avesse atteso – nel possesso dell’area ed in conformità al programma di fabbricazione vigente in illo tempore – alla realizzazione di opere di pubblico interesse e della viabilità di servizio della zona, realizzata su una porzione del fondo di proprietà degli appellati ed utile anche per l’accesso alla struttura ricettiva nella titolarità della società appellante.
La Sezione remittente, pertanto, deferiva all’Adunanza Plenaria i seguenti quesiti:
- se il giudicato civile, sull’obbligo di restituire un’area al proprietario da parte dell’Amministrazione occupante sine titulo, precluda o meno l’emanazione di un atto di imposizione di una servitù di passaggio, col mantenimento del diritto di proprietà in capo al suo titolare;
- se la formazione del giudicato interno – sulla statuizione del TAR per cui il giudicato civile consente l’attivazione di un ordinario procedimento espropriativo volto all’acquisizione-sanante della proprietà – imponga di affermare che sussiste anche il potere dell’Amministrazione di imporre la servitù di passaggio ex art. 42-bis, comma 6 del D. P. R. n. 327/2001;
- se la preclusione del “giudicato restitutorio” sussista anche quando la sentenza (del giudice civile) non abbia espressamente precluso – per la estraneità della questione oggetto del giudizio – l’esercizio dei poteri previsti dall’art. 42-bis per adeguare lo stato di fatto a quello di diritto;
- se la preclusione del “giudicato restitutorio” sussista solo in relazione ai giudicati formatisi dopo la pubblicazione della sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 2 del 2016, ovvero anche in relazione ai giudicati formatisi in precedenza (Cons. Stato, 15 luglio 2019, n. 4950).
Il Collegio – sulla scorta del richiamo al dato letterale dell’art. 42 bis, D. P. R. 327/2001 commi 1, 2 e 6 – precisa in primo luogo la configurazione di norma di chiusura del sistema assunta dalla disposizione, la cui applicazione deve essere ammessa – oltreché nelle fattispecie in cui la P. A. agisca in via autoritativa ed in assenza di un valido titolo legittimante – quante volte un bene immobile oggetto del diritto di proprietà del privato ricada nella disponibilità dell’Amministrazione pubblica, che impiega e modifica la res nella sua consistenza materiale, al fine di attendere a finalità di pubblico interesse.
Tale ermeneusi rinviene conferma già nella rubrica del medesimo art. 42 bis, D. P. R. n. 327/2001, la cui formulazione – lungi dal configurare l’istituto dell’acquisizione-sanante nelle sole ipotesi in cui l’occupazione arbitraria del bene immobile consegua all’esercizio di un potere amministrativo specifico – reca il riferimento alla utilizzazione sine titulo di un bene per scopi di interesse pubblico, che – in uno alla intervenuta modifica della res in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità – integra, come rilevato dalla Sezione remittente, un presupposto fondante del procedimento.
L’assenza di rilievo delle circostanze che hanno condotto alla occupazione sine titulo del bene immobile – e del loro carattere pubblicistico ovvero privatistico – ai fini dell’applicazione dell’istituto dell’acquisizione-sanante risulta escluso, altresì, dal disposto dello stesso 42 bis, comma 2, D. P. R. n. 327/2001.
La disposizione, infatti, contempla l’adozione del provvedimento di acquisizione-sanante anche nelle ipotesi nelle quali l’occupazione sine titulo dell’immobile consegua, quale illecito dell’Amministrazione, all’annullamento dell’atto di vincolo preordinato all’esproprio, dell’atto che abbia dichiarato la pubblica utilità dell’opera ovvero del decreto di esproprio e non già al solo illegittimo esercizio in concreto del potere amministrativo.
Il carattere inconferente del profilo eziologico dell’illecito perpetrato dall’Amministrazione mediante l’occupazione arbitraria del bene immobile del privato ai fini dell’adozione del provvedimento di acquisizione-sanante risulta confermato, altresì, dal disposto del dell’art. 42 bis, comma 4, D. P. R. n. 327/2001, che prescrive la necessaria indicazione nel provvedimento ablatorio delle circostanze che hanno condotto all’indebita utilizzazione dell’area – nonché, se possibile, la data del suo inizio -, senza recare riferimento alcuno a specifiche forme di impiego illegittimo da parte della pubblica Autorità.
La ricognizione in termini siffatti dell’ampio perimetro entro il quale configurare l’istituto dell’acquisizione-sanante, peraltro, risulta conforme alla natura eccezionale della norma di cui all’art. 42 bis, D. P. R. n. 327/2001 – quale interpretato dall’Adunanza Plenaria nella sentenza del 9 febbraio 2016, n. 2, in linea con la sentenza Corte cost., 30 aprile 2015 ,n. 71 -, che ha introdotto nell’ordinamento un procedimento ablatorio sui generis, assistito da una precisa base legale, semplificato nella struttura, complesso negli effetti – comunque privi di efficacia retroattiva – ed informato alla necessità di assolvere ad imperiose esigenze pubbliche, mediante la salvaguardia e la gestione della infrastruttura realizzata sine titulo (cfr. Cons. Stato, A. P., 9 febbraio 2016, n. 2).
L’inquadramento logico-sistematico dell’art. 42 bis, D. P. R. n. 327/2001 nello spettro della più generale riflessione sull’attività amministrativa e sugli strumenti ammessi dall’ordinamento per il suo esercizio, inoltre, consente di rilevare l’immanenza del pubblico interesse – contemplato dall’art. 42 bis, D. P. R. n. 327/2001 quale finalità sottesa alla occupazione sine titulo del bene immobile altrui e presupposto per l’adozione del provvedimento di acquisizione-sanante – all’azione della pubblica Autorità, in disparte l’esercizio di poteri autoritativi ovvero il ricorso a strumenti di diritto privato per il suo perseguimento (cfr. art. 1, L. 7 agosto 1990, n. 241).
L’esclusiva ragione di interesse pubblico sottesa all’azione amministrativa – che ne integra la causa in senso giuridico – non viene meno, infatti, in ragione della sua realizzazione mediante l’emanazione di provvedimenti amministrativi, ovvero per il tramite della sottoscrizione in via paritetica di accordi con i soggetti privati ex art. 11, L. n. 241/1990 – e, segnatamente, accordi sostitutivi di provvedimento – ovvero, ancora, mediante il ricorso a strumenti di natura privatistica – in specie contratti -, salvo che la legge non disponga diversamente (cfr. art. 1, L. n. 241/1990).
Più specificamente, il discrimen tra accordi sostitutivi tra amministrazione e privati recanti un contenuto patrimoniale – qualificati alla stregua di c. d. contratti ad oggetto pubblico, in quanto intervengono su aspetti patrimoniali connessi all’esercizio di potestà – e c. d. contratti ad evidenza pubblica – sottoscritti dall’Amministrazione all’infuori di un procedimento amministrativo ovvero sostituivo, ma in ragione della previa individuazione, in via autoritativa e nell’osservanza del principio di legalità, delle finalità di pubblico interesse perseguite – non elide l’unica ragione di interesse pubblico che informa l’azione amministrativa, sebbene la diversa funzione assunta dagli scopi di pubblico interesse nella conformazione dell’istituto giuridico prescelto dalla P. A..
Il riconoscimento in capo all’Amministrazione del potere di intervenire sul rapporto insorto – ovvero sulle conseguenze di fatto di un rapporto comunque cessato – per il tramite dell’esercizio di poteri pubblicistici, quante volte la finalità di pubblico interesse non risulti – o non risulti più – essere perseguita – o perseguibile – mediante il contratto previamente stipulato con il soggetto privato, non collide, pertanto, come affermato dal giudice di prime cure – con i principi costituzionali e comunitari che presiedono alla materia dell’espropriazione per pubblica utilità e, segnatamente, con gli artt. 3 e 42 Cost..
L’assenza di un “principio di alternatività sostanziale” tra il ricorso ad atti di natura autoritativa ovvero ad istituti di natura negoziale rinviene conferma nella applicabilità dell’istituto dell’acquisizione-sanante anche nelle fattispecie nelle quali il trasferimento del diritto di proprietà in capo all’Amministrazione consegue comunque ad un contratto di cessione volontaria (art. 20, D. P. R. n. 327/2001) – quale effetto autonomo ed in via derivativa dell’istituto – successivamente alla dichiarazione della nullità o della inefficacia del negozio bilaterale, che ha determinato la indebita utilizzazione del bene immobile.
L’applicazione dell’art. 42 bis, D. P. R. n. 327/2001, inoltre, ammessa nelle ipotesi di c. d. occupazione usurpativa – nelle quali l’assenza o il sopravvenuto annullamento della dichiarazione di pubblica utilità, in guisa difforme rispetto al principio di legalità enucleato nell’art. 42, comma 3 Cost., configura l’utilizzazione del bene immobile quale fatto illecito ab initio, perpetrato dall’Amministrazione – deve ritenersi consentita a fortiori quante volte il preesistente rapporto paritetico tra l’Amministrazione ed il privato sia riconducibile ad un contratto di compravendita dichiarato nullo o annullato, quale titolo comunque astrattamente idoneo a disporre il trasferimento della res, peraltro in ragione delle finalità di pubblico interesse definite dallo strumento urbanistico in vigore.
Il Collegio, da ultimo, precisa come l’atto di acquisizione coattiva del bene immobile occupato sine titulo dalla pubblica Autorità al patrimonio indisponibile dell’amministrazione – configurato, nelle richiamate pronunce della Corte Costituzionale del 2015 e dell’Adunanza Plenaria del 2016, quale procedimento espropriativo semplificato, che sintetizza uno actu sia la dichiarazione di pubblica utilità sia il decreto di esproprio – non risulti inibito quante volte intervenga un giudicato che nulla dispone in ordine alla condanna dell’Amministrazione alla restituzione del bene al proprietario, in ragione dell’assenza di una specifica domanda proposta in tal senso dal ricorrente o dall’attore.
L’effetto preclusivo del giudicato, inoltre, deve essere riferito esclusivamente al provvedimento con il quale l’Amministrazione disponga ex art. 42 bis, comma 2, D. P. R. n. 327/2001 l’acquisizione-sanante alla proprietà pubblica del bene occupato sine titulo, giammai anche al distinto provvedimento con il quale l’Autorità imponga sulla res una servitù (artt. 1027 ss. c. c.) ed il bene continui ad essere utilizzato dal proprietario o dal titolare di un altro diritto reale, giusta l’art. 42-bis, comma 3, D. P. R. n. 327/2001.
La limitazione degli effetti della sentenza coperta da giudicato in senso sostanziale, a mente dell’art. 2909 c. c., alle sole parti del giudizio, ai loro eredi ed aventi causa – nei limiti oggettivi costituiti dai suoi elementi costitutivi ovvero dalla causa petendi o dal petitum c. d. mediato dell’azione – esclude, infatti, la non conformità al decisum giudiziale di un provvedimento che imponga ex novo ed ex nunc una servitù sul bene restituito alla proprietà privata, atteso che l’istituto di matrice civilistica risulta coerente con la permanenza del diritto reale in capo al privato – che ha identificato il petitum del giudizio definito con la pronuncia giudiziale – e, piuttosto, ne postula la sussistenza
Avv. Marco Bruno Fornaciari