L’adozione, da parte della P. A., di un provvedimento di acquisizione-sanante ai sensi dell’art. 42 bis, D. P. R. n. 327 del 2001, determina l’improcedibilità delle domande di restituzione e di risarcimento del danno proposte in relazione ad esse, salva la formazione del giudicato non solo sul diritto del privato alla restituzione del bene, ma anche sulla illiceità del comportamento della P. A. e sul conseguente diritto del primo al risarcimento del danno; tale provvedimento, infatti, costituisce l’unico rimedio formale per far cessare lo stato di illiceità preesistente, alternativo alla restituzione del bene previa rimessione in pristino (1).
La richiesta del solo risarcimento del danno per occupazione sine titulo non può produrre alcun effetto traslativo della proprietà in capo alla P. A. procedente; il mutamento del quadro normativo e giurisprudenziale impone tuttavia di individuare i possibili strumenti per non privare la parte del suo diritto di difesa, “riqualificando” la domanda a suo tempo proposta in maniera coerente con l’assetto preesistente; in tale ottica è dunque possibile rimetterla in termini per errore scusabile ai sensi dell’art. 37 c. p. a. o invitarla alla precisazione della domanda in relazione al definito quadro giurisprudenziale, previa sottoposizione della relativa questione processuale, in ipotesi rilevata d’ufficio, al contraddittorio delle parti ex art. 73, comma 3 c. p. a., a garanzia del diritto di difesa (2) (Cons. Stato, Sez. II, 12 febbraio 2020, n. 1087).
Con la sentenza dedotta in rassegna, il Giudice di appello definisce il gravame interposto dall’Amministrazione comunale per la riforma della sentenza di primo grado, che aveva accolto l’azione di risarcimento spiccata dai proprietari, originari ricorrenti, in ragione dei danni lamentati e conseguenti alla illegittimità degli atti con i quali l’Autorità aveva disposto l’occupazione di urgenza di un’area di loro proprietà, seguita dalla irreversibile trasformazione dei fondi (T. A. R. Abruzzo – Pescara, Sez. I, 23 luglio 2012, n. 360).
L’acquisizione-sanante alla mano pubblica dei fondi oggetto della indebita ablazione, in particolare, era avvenuta mediante due distinte occupazioni, la prima soltanto delle quali era stata seguita dall’adozione del decreto di esproprio, successivamente dichiarato illegittimo dalla Corte di Appello territorialmente competente – adita in sede di opposizione alla stima dell’indennità ex art. 27, D. P. R. n. 327/2001 (art. 54, D. Lgs. n. 150/2011) – in ragione della conclusione del procedimento espropriativo oltre i termini previsti dalla legge.
Il Collegio rilevava il decorso dei termini per la conclusione del procedimento espropriativo e riteneva che la domanda giudiziale proposta da parte ricorrente integrasse un atto di rinuncia abdicativa alla proprietà dei beni immobili oggetto di apprensione coattiva da parte dell’Amministrazione – rimasta fino ad allora nella loro formale titolarità -, in quanto volta esclusivamente a conseguire il ristoro dei danni subiti a seguito della illegittima trasformazione dei fondi, soggetta all’osservanza del termine di prescrizione di cui all’art. 2947 c. c., applicabile ratione temporis nel caso di specie.
Il Giudice di prime cure, pertanto, disattesa la domanda riconvenzionale proposta dall’Amministrazione resistente – che affermava di aver usucapito le aree in questione – giusta l’art. 2697 c. c. e l’art. 64 c. p. a., assegnava al Comune termine per proporre una somma a titolo di risarcimento danni pari al valore dei beni immobili occupati con riferimento alla data di scadenza della occupazione legittima, giusta l’art. 34, comma 4 c. p. a..
L’Amministrazione soccombente, quindi, proponeva ricorso in appello avverso la statuizione del Giudice del primo grado di giudizio, articolato in cinque motivi, con i quali veniva censurata la mancata reiezione del ricorso introduttivo in ragione, tra l’altro, della mancata declaratoria di inammissibilità per tardività del ricorso introduttivo e a cagione della asserita prescrizione dell’azione risarcitoria ai sensi dell’art. 30, comma 3 c. p. a.
Parte appellante, pertanto, domandava la declaratoria di improcedibilità del ricorso di primo grado, atteso che il decreto di acquisizione sanante ex art. 42 bis, D. P. R. n. 327/2001 – il cui contenuto era stato rettificato, per la parte relativa alla quantificazione dell’indennizzo, dalla richiamata sentenza del G. O. distrettuale – avesse importato la sopravvenuta carenza di interesse degli originari ricorrenti.
Gli appellati – costituitisi in giudizio per resistere al gravame – deducevano, in particolare, come la richiamata impugnazione ex art. 54, D.Lgs. n. 150/2011, del decreto di esproprio – con il quale era stata disposta l’acquisizione-sanante alla mano pubblica di una delle aree contese, già oggetto di occupazione contra ius – in ragione della contestazione alla stima dell’indennità di cui all’art. 27, D. P. R. n. 327/2001, escludesse ogni profilo di acquiescenza nella condotta degli interessati.
L’Amministrazione comunale, pertanto, in esecuzione dell’ordinanza cautelare con la quale il Consiglio di Stato aveva respinto la domanda di sospensione dell’efficacia della pronuncia del Tar, proposta in via incidentale dal Comune appellante, disponeva l’acquisizione-sanante al patrimonio dell’Ente, dei lotti già oggetto di occupazione usurpativa ed individuava anche l’importo dell’indennizzo, giusta l’art. 42 bis, D. P. R. n. 327/2001.
Dichiarata la perenzione del ricorso proposto dalle parti avverso il decreto di acquisizione-sanante adottato dall’Amministrazione appellante, la Corte di Appello territorialmente competente, adita dalle parti in ragione della asserita illegittimità della determinazione dell’importo loro spettante a titolo di indennizzo e di risarcimento per la disposta acquisizione-sanante, intimava al Comune di integrare il deposito già acceso in favore dei ricorrenti presso la Ragioneria territoriale dello Stato.
(1) (2)La Sezione, sulla scorta del richiamo alla consolidata giurisprudenza del Collegio, precisa come ogni aspettativa di tutela, di carattere restitutorio ovvero risarcitorio, espressa dal privato con riferimento alla occupazione illegittima che attinga un bene nella sua proprietà rinvenga nell’eventuale contenzioso instaurato avverso il provvedimento di acquisizione-sanante ex art. 42 bis, D. P. R. n. 327/2001, eventualmente intervenuto medio tempore, la sede della propria integrale soddisfazione (ex pluribus, Cons. Stato, Sez. V, 13 ottobre 2010, n. 7472; Cons. Stato, Sez. V, 5 maggio 2009, n. 2801)
La necessità dare esecuzione al provvedimento di acquisizione-sanante adottato dall’Amministrazione nella pendenza del giudizio instaurato dalla domanda di carattere restitutorio ovvero risarcitorio formulata dal proprietario attinto dalla occupazione contra ius, in uno alla impossibilità di configurare profili ulteriori di soddisfazione del bene della vita oggetto della originaria domanda azionata dal privato, infatti, importerebbe la improcedibilità del ricorso già instaurato per sopravvenuta carenza di interesse ad agire ex art. 100 c. p. c., applicabile nel processo amministrativo in virtù del rinvio esterno di cui all’art. 39 c. p. a. (Cons. Stato, Sez. V, 5 maggio 2009, n. 2801).
Il provvedimento che disponga l’acquisizione-sanante ex art. 42 bis, D. P. R. n. 327/2001, del bene attinto dalla occupazione illegittima dell’Autorità e dalla conseguente trasformazione irreversibile, infatti, integra – unitamente alla restituzione della res al privato, previo ripristino dei luoghi nello stato di fatto originario – il solo strumento approntato dall’ordinamento per porre termine all’illecito permanente perpetrato dall’Amministrazione, non soggetto a regime prescrizionale.
L’acquisizione-sanante alla mano pubblica del bene già oggetto di occupazione illegittima e di trasformazione irreversibile, infatti, configura un rimedio formale, tipizzato e nominato dal legislatore – in guisa conforme al rilievo primario assunto nella materia dal principio di legalità, enucleato nell’art. 42, commi 2 e 3 Cost. e, a livello sovranazionale, nell’art. 1, § 1 del Protocollo addizionale n. 1 alla CEDU – , al fine di consentire la riconduzione nell’alveo della legalità delle fattispecie nelle quali ricorra la utilizzazione di un bene privato per finalità di interesse generale, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità (cfr. Cons. Stato, A. P., 20 gennaio 2020, n. 4).
Come recentemente statuito dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, infatti, per le fattispecie disciplinate dall’art. 42 bis, D. P. R. n. 327/2001, l’illecito permanente dell’Autorità viene meno nei casi da esso previsti – ovvero l’acquisizione del bene o la sua restituzione -, salva la conclusione di un contratto traslativo tra le parti, di natura transattiva e la rinuncia abdicativa non può essere ravvisata (Cons. Stato, A. P., 20 gennaio 2020, n. 2 e 3).
Il provvedimento con il quale l’Amministrazione disponga la restituzione al privato del bene attinto dalla occupazione illegittima ovvero l’acquisizione-sanante della medesima res alla mano pubblica, quindi, è espressione di una funzione, doverosa nell’an, che l’Autorità è chiamata ad assolvere al fine di porre fine allo stato di illegalità nella quale versa la situazione presupposta dalla norma, giammai una mera facoltà di scelta o di non scegliere tra opzioni possibili (cfr. Cons. Stato, A. P., 20 gennaio 2020, n. 4).
Per le fattispecie rientranti nell’ambito di applicazione dell’art. 42 bis D. P. R. n. 327/2001, pertanto, la rinuncia abdicativa del proprietario del bene occupato sine titulo dalla pubblica amministrazione – quale intervenuta nella fattispecie oggetto del giudizio definito con la pronuncia di cui agli estremi dedotti in epigrafe – non costituisce causa di cessazione dell’occupazione sine titulo quale illecito permanente, anche a non voler considerare i profili attinenti alla forma (Cons. Stato, A. P., 20 gennaio 2020, n. 4).
La giurisprudenza di legittimità, peraltro, ha precisato ulteriormente come la improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse delle domande di restituzione e di risarcimento del danno, conseguenti alla adozione del provvedimento di acquisizione-sanante ex art. 42 bis, D. P. R. n. 327/2001, non involga la formazione del giudicato intervenuto sul diritto del privato alla restituzione del bene, nonché sulla illiceità del comportamento della P. A. e sul conseguente diritto del primo al risarcimento del danno (cfr. Cass. Civ., Sez. I, 7 marzo 2017, n. 5686; Cass. Civ., Sez. I, 31 maggio 2016, n. 11258; Cass. Civ., Sez. II, 14 gennaio 2013, n. 705).
Il Collegio, nella sua composizione nomofilattica ed in linea con la sentenza 30 aprile 2015, n. 71 – che ha configurato l’acquisizione sanante quale extrema ratio per la soddisfazione di “attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico” – ha chiarito, infatti come la scelta rimessa all’Amministrazione nell’ipotesi in cui si verifichi una delle situazioni contemplate dall’art. 42 bis, commi 1 e 2, D. P. R. n. 327/2001, non concerne l’alternativa fra l’acquisizione-sanante autoritativa e la concreta restituzione del bene, ma quella fra la sua acquisizione-sanante e la non acquisizione-sanante, in quanto la concreta restituzione rappresenta un semplice obbligo civilistico, giammai l’espressione di una specifica volontà provvedimentale dell’Autorità (Cons. Stato, A. P., 9 febbraio 2016, n. 2).
Il Collegio rileva, pertanto, come, nel caso di specie, il carattere intangibile del giudicato formatosi sulla domanda di risarcimento del danno formulata dagli originari ricorrenti, al pari di quelle eventuali di restituzione, conseguente alla avvenuta acquisizione degli immobili, sia immanente alla statuizione del Giudice del primo grado di giudizio.
L’emanazione del provvedimento di acquisizione-sanante ex art. 42 bis, D. P. R. n. 327/2001, infatti, ha costituito – al pari della restituzione del fondo oggetto di occupazione illegittima o di un accordo transattivo tra privato ed Autorità – causa di cessazione dell’illecito permanente perpetrato dall’Amministrazione, sopravvenuta – in ottemperanza al decisum del Giudice cautelare – al giudizio di primo grado piuttosto che al ricorso introduttivo (cfr. Cass. Civ., Sez. I, n. 5686/2017; Cons. Stato, Sez. IV, 26 aprile 2019, n. 2678; Cons. Stato, Sez. IV, 30 agosto 2017, n. 4106).
Avv. Marco Bruno Fornaciari