Qualora sia chiesto il risarcimento del danno conseguente alla occupazione senza titolo di un terreno, poi restituito dall’Amministrazione, non si applica l’art. 42-bis, comma 3, del Testo Unico sugli Espropri (la cui regola del 5% annuo sul valore dell’area si applica solo qualora l’Autorità che utilizza l’area ne disponga l’acquisizione) e il giudice amministrativo – in mancanza della specifica prova del danno conseguente al suo mancato godimento – può disporne la liquidazione secondo equità, tenendo conto della estensione del terreno, della durata dell’occupazione e della sua precedente utilizzazione, e può quantificare l’importo nel suo preciso ammontare (evitando la fissazione di parametri che implicano la previa determinazione del valore dell’area) (1) (Cons. Stato, Sez. IV, 23 luglio 2020, n. 4709).
Con la sentenza di cui agli estremi dedotti in epigrafe, il Collegio definisce il ricorso in appello interposto dall’originario ricorrente per la riforma della sentenza del Giudice di prima istanza, che aveva ritenuto infondata l’azione per il risarcimento del danno ex art. 30, comma 2 c. p. a. conseguente all’occupazione illegittima disposta dall’Amministrazione comunale intimata con riferimento ad una porzione del fondo di proprietà dell’interessato, nell’ambito della procedura espropriativa avviata per la realizzazione di una infrastruttura viaria, ritenuta funzionale all’interesse pubblico (T. A. R. Abruzzo – L’Aquila, Sez. I, 27 novembre 2017, n. 491).
La Delibera G. C. con la quale l’Amministrazione comunale aveva atteso alla riapprovazione del progetto successivamente alla sospensione dei lavori disposta dallo stesso Collegio, nonché il pedissequo decreto recante la disposizione di una nuova occupazione d’urgenza ex art. 22-bis D. P. R. 327/2001 (T. U. Espr.) della stessa area, invero, venivano annullati con distinti provvedimenti resi in sede giurisdizionale, atteso che i gravati provvedimenti avrebbero integrato una “sorta di ripensamento del comune procedente, rispetto agli originari atti ablatori in precedenza adottati” (T. A. R. Abruzzo – L’Aquila, Sez. I, 9 maggio 2013, n. 438; T. A. R. Abruzzo – L’Aquila, Sez. I, 10 marzo 2011, n. 128).
La riproposizione ex novo di una inedita procedura espropriativa, sulla base della revisione interpretativa compiuta dal responsabile del procedimento, nel torno di tempo successivo al compiuto esperimento della prima e successivamente annullata in sede giurisdizionale, non avrebbe potuto importare la reviviscenza della procedura ablatoria originariamente intrapresa, venuta meno con l’avvio della inedita fase occupativa, poi annullata dal Collegio, e conduceva alla declaratoria di improcedibilità del ricorso ex art. 29 c. p. a. in ragione del sopravvenuto difetto di interesse delle parti alla decisione (art. 35, comma 1, lett. c), c. p. a.).
Parte appellante, pertanto, instava dinanzi al Giudice di primo grado, onde ottenere la condanna dell’Amministrazione procedente al risarcimento del danno conseguente alla occupazione perpetrata nell’area di interesse e quantificato alla stregua del criterio forfettario enucleato nell’art. 42-bis, comma 3 D. P. R. 327/2001, attesa l’illegittimità dei gravati provvedimenti di occupazione del fondo di proprietà, seguiti, peraltro, dalla restituzione del cespite all’interessato, disposta dall’Amministrazione senza la previa realizzazione di alcuna opera pubblica ovvero la modificazione del bene immobile.
La richiamata disposizione del T. U. Espr., infatti, assume, quale indice per il computo dell’indennizzo riconosciuto per il pregiudizio patrimoniale riveniente dalla occupazione illegittima di cui all’art. 42-bis, comma 1 D. P. R. 327/2001, il valore venale del bene impiegato per scopi di pubblica utilità, nonché – nelle ipotesi di esproprio di un’area edificabile – i criteri enucleati nell’art. 37, commi 3, 4, 5, 6, 7 T. U. Espr. per la determinazione della indennità, in disparte le ipotesi in cui la legge disponga altrimenti.
La medesima disposizione, inoltre, prescrive il computo, a titolo risarcitorio, dell’interesse del cinque per cento annuo sul valore determinato a norma dello stesso comma con riferimento al periodo di occupazione sine titulo del fondo e se gli atti del procedimento non recano la prova di una diversa entità del pregiudizio economico.
L’applicazione del criterio di liquidazione del danno di cui all’art. 42-bis, comma 3 D. P. R. 327/2001 era invocata da parte ricorrente in ragione del valore venale del fondo di proprietà – determinato alla stregua di un criterio sintetico-comparativo – nonché per il mancato utilizzo anche delle parti del fondo non attinte dalla illegittima occupazione da parte dell’Amministrazione comunale, atteso che il cespite avrebbe integrato un unicum funzionale ed economico, il cui razionale sfruttamento avrebbe reso necessario l’accesso alle singole parti dell’area, sebbene interessate dalla procedura ablatoria.
L’Amministrazione procedente, costituitasi in resistenza, insisteva per la declaratoria di infondatezza del ricorso, posto che il primo periodo di occupazione, venuto meno con la caducazione in sede giurisdizionale dei provvedimenti propedeutici alla procedura, avrebbe dovuto ascriversi alla occupazione di urgenza disposta con il decreto, ex art. 22-bis D. P. R. 327/2001, successivamente sospeso in sede giurisdizionale con ordinanza emessa dal Giudice di primo grado.
La difesa civica, inoltre, deduceva come la permanenza del bene nella disponibilità materiale del proprietario avrebbe escluso la integrazione di uno spossessamento in danno dell’interessato – che avrebbe ostato all’applicazione del criterio di liquidazione di cui all’art. 42-bis, comma 3 D. P. R. 327/2001, in uno all’assenza di ogni modifica apportata dall’Amministrazione procedente nell’area di interesse – ed eccepiva l’inammissibilità della domanda risarcitoria proposta da parte ricorrente con riferimento al secondo decreto ex art. 22-bis D. P. R. 327/2001 adottato dal Comune, atteso che la mancata caducazione del provvedimento gravato avrebbe reso legittima l’apprensione alla mano pubblica.
Parte resistente, da ultimo, rilevava come il mancato accertamento della dedotta illegittimità degli atti inerenti alla prima occupazione avrebbe integrato una violazione dell’art. 30, comma 2 c. p. a., oltre che il carattere incongruo della invocata applicazione del criterio di liquidazione dell’indennizzo prescritto dall’art. 42-bis, comma 3 D. P. R. 327/2001, in luogo della commisurazione all’impiego effettivo realizzato dal ricorrente ed in guisa conforme alle evidenze rivenienti dal verbale di immissione in possesso, che avrebbe riscontrato un’area nuda ed incolta, peraltro a bassa produttività.
Il Collegio, pertanto, respingeva la domanda risarcitoria, atteso che il primo periodo di occupazione sottendeva un provvedimento legittimo, lungi dal costituire oggetto di annullamento alcuno ovvero di caducazione retroattiva in ragione dell’adozione di un nuovo provvedimento d’urgenza, in termini difformi dal carattere illecito accertato con riferimento al secondo periodo d’urgenza, quale disposto con decreto annullato in sede giurisdizionale, senza peraltro disporre la condanna del Comune al risarcimento del relativo danno, in quanto non suffragato sul piano probatorio.
Il Giudice di prime cure, invero, rilevava come la fattispecie oggetto di giudizio non risultasse sussumibile nelle ipotesi di occupazione illegittima contemplate dall’art. 42-bis D. P. R. 327/2001 – insuscettibile, peraltro, di applicazione analogica in ragione della natura eccezionale della disposizione del T. U. Espr. – e come la consulenza tecnica prodotta dall’interessato non risultasse idonea ad integrare un elemento idoneo a supportare l’istanza risarcitoria sul piano probatorio – anche con riferimento alla porzione del fondo non oggetto di occupazione illegittima – atteso il non pertinente richiamo al criterio di liquidazione di cui all’art. 42-bis, comma 3 D. P. R. 327/2001.
Il ricorrente nel primo grado di giudizio, pertanto, interponeva appello per la riforma della statuizione del Giudice di prima istanza, censurata in ragione dell’error in iudicando nel quale sarebbe incorso il Collegio, atteso il carattere illegittimo – in guisa conforme all’accertamento giurisdizionale intervenuto mediante la richiamata sentenza T. A.R. Abruzzo – L’Aquila, n. 128/2011 – del provvedimento che aveva disposto la prima occupazione d’urgenza, la cui efficacia, peraltro, sarebbe risultata estesa fino alla restituzione dell’area al proprietario del bene immobile, sopravvenuta – secondo quanto comprovato dal verbale di riammissione al possesso – nel torno di tempo successivo alla data individuata dal Giudice di prime cure.
La domanda risarcitoria ex art. 30, comma 2 c. p. a., inoltre, avrebbe rinvenuto idoneo supporto probatorio ex actis nell’istanza di rilascio di permesso di costruire ex artt. 10 ss. D. P. R. 380/2001 (T. U. Ed.), depositata dall’interessato presso l’Amministrazione comunale intimata ed evasa mediante riscontro negativo in ragione della perdurante occupazione del fondo, in guisa da precludere al proprietario lo sfruttamento della vocazione edificatoria dell’area.
Parte appellante insisteva per la condanna dell’Amministrazione procedente al risarcimento del danno, in applicazione del criterio di liquidazione di cui all’art. 42-bis, comma 3 D. P. R. 327/2001 – in uno alla rivalutazione ed agli interessi sulle somme riconosciute a titolo di ristoro – e con riferimento alla porzione del fondo non interessata dalla occupazione illegittima posta in essere dallo stesso Ente comunale e, tuttavia, rimasta priva di un impiego redditizio in ragione della unitarietà economica del bene.
L’Amministrazione procedente si costituiva in resistenza nel giudizio di impugnazione ed insisteva per la reiezione dell’atto di gravame, in ragione della dedotta legittimità del primo atto di occupazione – rimasto impregiudicato da un annullamento in sede giurisdizionale ovvero in sede amministrativa – e della mancata allegazione, sul piano probatorio, di ogni elemento idoneo a dimostrare il pregiudizio arrecato alla parte appellante dalla occupazione sine titulo del fondo di proprietà, non configurabile in re ipsa nell’illecito perpetrato dall’Ente comunale.
La difesa civica, inoltre, deduceva il carattere inconferente, nella fattispecie oggetto di giudizio, della invocata applicazione in via analogica del criterio prescritto dall’art. 42-bis, comma 3 D. P. R. 327/2001 per la liquidazione dell’indennizzo di cui al comma 1 della medesima disposizione del T. U. Espr., nonché la salvaguardia delle potenzialità economiche della porzione residua del fondo, in quanto non interessata dalla occupazione sine titulo e non pregiudicata dalla procedura ablatoria avviata dall’Amministrazione comunale.
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La Sezione rileva in primo luogo come la statuizione del Giudice di prima istanza, che ha escluso la intervenuta declaratoria di illegittimità del provvedimento sotteso al primo periodo di occupazione d’urgenza ex art. 22-bis D. P. R. 327/2001 sul fondo di proprietà del ricorrente, rinvenga conferma nella declaratoria di improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza d’interesse delle parti alla decisione, pronunciata dal Collegio con sentenza T. A. R. Abruzzo – L’Aquila, n. 438/2013 ed idonea ad integrare una re-giudicata in senso sostanziale.
Il mero riscontro, in sede di esercizio del sindacato giurisdizionale, di un decreto di occupazione di urgenza intervenuto con riferimento al medesimo bene immobile, ulteriore e sostitutivo rispetto a quello già adottato dall’Amministrazione procedente, invero, ha precluso ogni effettivo scrutinio inerente ai profili di illegittimità dell’avversato provvedimento, quali censurati dalla originaria parte ricorrente, in disparte la pronuncia della cessata materia del contendere, che ne avrebbe importato la necessaria valutazione in termini di effettiva fondatezza o meno.
Il periodo di occupazione ascrivibile al provvedimento di occupazione d’urgenza non caducato, pertanto, avrebbe reso necessaria la liquidazione dell’indennità di occupazione alla stregua del criterio enucleato nell’art. 50, comma 1 D. P. R. 327/2001, che riconosce al proprietario una indennità per ogni anno pari ad un dodicesimo di quanto sarebbe dovuto nell’ipotesi di esproprio dell’area, nonché, per ogni mese ovvero frazione di mese, una indennità pari ad un dodicesimo di quella annua.
Il Collegio, ritenuta inammissibile ed infondata il motivo di censura inerente alla omessa considerazione, nella statuizione del Giudice di prime cure, del pregiudizio derivato alla proprietà dal mancato sfruttamento delle potenzialità edificatorie del fondo – attesa la violazione del divieto di allegazione di nova in appello (art. 104, comma 2 c. p. a.) e della regola del doppio grado di giudizio, enunciata dall’art. 125 Cost. con riferimento alla giurisdizione amministrativa -, ritiene inconferente il richiamo di parte appellante alle ragioni dedotte dall’Amministrazione nel provvedimento di diniego, opposto all’istanza di rilascio di permesso di costruire (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 29 gennaio 2020, n. 714).
La domanda di risarcimento per violazione dello jus aedificandi, invero, non rinviene un supporto probatorio nelle richiamate ragioni di diniego dell’istanza ex artt. 10 ss. D. P. R. 380/2001 e postula il riferimento ad una circostanza – quale la persistente occupazione del bene immobile da parte dell’Amministrazione, che avrebbe impedito il migliore sfruttamento delle potenzialità edificatorie da parte della proprietà – non passibile ex se di risarcimento per equivalente a mente dell’art. 2058, comma 2 c. c., attesa la mancata allegazione di un effettivo pregiudizio economico riveniente nella sfera giuridica dell’agente (cfr., ex multis, Cass. Civ., Sez. III, 24 aprile 2019, n. 11203; Cass. Civ., Sez. III, ord. 4 dicembre 2018, n. 31233; Cass. Civ., Sez. III, 25 maggio 2018, n. 13071).
La Sezione – ritenuto precluso in sede di impugnazione l’accertamento incidenter tantum della effettiva sussistenza della dedotta edificabilità – precisa, inoltre, come l’assenza di ogni profilo che integri un danno arrecato allo ius aedificandi rinviene conferma nella cessazione, intervenuta da lungo tempo, della occupazione illegittima posta in essere dall’Amministrazione, in guisa da rendere possibile per l’interessato la formulazione di eventuali istanze, soggette ad una valutazione compiuta alla stregua delle regole generali.
Il Collegio, richiamato l’orientamento giurisprudenziale della Sezione, che ha ritenuto ammissibile la liquidazione in via equitativa dell’indennizzo contemplato dall’art. 42-bis, comma 1 D. P. R. 327/2001 – secondo il parametro di cui al comma 3 della medesima disposizione – anche nelle ipotesi di restituzione dell’area oggetto della occupazione sine titulo titolare del diritto dominicale, ritiene, peraltro, di dover rimeditare tale impostazione (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 27 maggio 2019, n. 3428; Cons. Stato, Sez. IV, 9 maggio 2018, n. 2765; Cons. Stato, Sez. IV, 23 settembre 2016, n. 3929; Cons. Stato, Sez. IV, 28 gennaio 2016, n. 329; Cons. Stato, Sez. IV, 2 novembre 2011, n. 5844).
Il richiamato indirizzo pretorio, invero, ha mutuato l’applicazione del criterio di liquidazione ex art. 42-bis, comma 3 D. P. R. 327/2001, prescritto nelle ipotesi di acquisizione sanante, configurata dalla giurisprudenza del Collegio in composizione nomofilattica nei termini di una “fattispecie normativa di diritto amministrativo settoriale in materia espropriativa, quale tassativamente predeterminata dal legislatore“, lungi dalla liquidazione dell’importo riconosciuto a titolo di risarcimento del danno quante volte intervenga la restituzione della area occupata sine titulo ovvero la constatazione dell’acquisto del bene occupato da parte dell’Amministrazione ed in assenza di un formale atto di acquisizione (cfr. Cons. Stato, A. P., 20 gennaio 2020, n. 4; Corte cost., 30 aprile 2015, n. 71).
L’assimilazione delle distinte fattispecie ablatorie, peraltro, ha interessato i soli profili relativi all’an della domanda risarcitoria, attesa la ritenuta insussistenza della necessità di assolvere ad un onere di descrizione, in termini puntuali e dettagliati, del pregiudizio patrimoniale sofferto dal proprietario dell’area oggetto di occupazione sine titulo, onde accertare l’avvenuta integrazione del danno, quante volte ricorra la lesione ovvero la compressione della facoltà di godimento riveniente dall’illecito perpetrato dall’Amministrazione comunale, in guisa che la ragione dell’applicazione analogica dell’art. 42-bis, comma 3 T. U. Espr. dovrebbe essere individuata nella semplificazione degli oneri di allegazione e di prova che assistono l’azione ex art. 30, comma 2 c. p. a., sotto il profilo dell’an e del quantum.
Il Collegio aderisce al precedente indirizzo giurisprudenziale della Sezione, in ragione dell’articolato e composito sistema normativo, sovranazionale e nazionale, che appronta una consistente e multiforme tutela per il diritto di proprietà, mediante la previsione di rimedi molteplici e distinti, nonché la semplificazione degli oneri probatori che gravano in capo al danneggiato, sì da assicurare l’osservanza dei princìpi di matrice euro-unitaria che informano il processo amministrativo, quale il principio di effettività della tutela giurisdizionale (art. 1 c. p. a.), ed in disparte la corretta configurazione del danno patrimoniale conseguente alla perdita transitoria della facoltà di godimento (c. d. danno-evento ovvero c. d. danno-conseguenza).
La temporanea perdita della facoltà di godimento del bene oggetto della occupazione sine titulo, quale allegata da parte appellante, assume rilievo non soltanto al fine della descrizione del pregiudizio subito dalla situazione giuridica soggettiva del proprietario dell’area, ma integra, altresì, un profilo dirimente per il profilo riveniente da siffatta lesione nella sfera giuridica dell’interessato.
Il valore d’uso del bene occupato ovvero la mera disponibilità statica dello stesso fondo, venuti meno in ragione dell’illecito perpetrato dall’Amministrazione, infatti, costituisce – secondo l’id quod plerumque accidit ed in applicazione del meccanismo delle presunzioni semplici di cui all’art. 2729 c. c. – una posta attiva potenziale nella sfera giuridica del proprietario del fondo attinto dalla occupazione sine titulo, in quanto riferita ai molteplici impieghi associati alla disponibilità materiale dell’area.
Il rilievo rinviene conferma nella giurisprudenza civile di legittimità, che – intervenuta in funzione nomofilattica con riferimento alla diversa fattispecie della mora nell’adempimento di una obbligazione pecuniaria – reca princìpi di importanza precipua in materia probatoria, quale l’ammissibilità della prova della sussistenza del maggior danno mediante il ricorso a presunzioni semplici ed in applicazione di tecniche di semplificazione istruttoria, suscettibili di variazione nel corso del tempo ed in ragione del mutamento del contesto economico-sociale.
Il criterio teorico-pratico della ripartizione dell’onere della prova – che configura un modo di osservare l’esperienza giuridica piuttosto che un istituto giuridico in sè concluso – deve essere rinvenuto, inoltre, nel rapporto tra normalità ed anormalità, tra regola ed eccezione, in guisa da ricorrere allo schema della presunzione in termini tipici e costanti quante volte il modello legale non risulti idoneo in relazione alle posizioni delle parti con riferimento ai singoli temi probatori, sì da coniare autentiche regole di giudizio che assolvano alla distribuzione dell’onus probandi in senso conforme al dato che si ricava dall’esperienza positiva, giammai ad una sua inversione (Cass. Civ., S. U., 16 luglio 2018, n. 19499).
Il richiamato principio di diritto, pertanto, rende ammissibile la presunzione dell’esistenza del maggior danno occorso nell’inadempimento di un’obbligazione pecuniaria e la relativa quantificazione mediante un criterio determinato in via equitativa, atteso l’uso remunerativo ovvero proficuo di regola associato al bene-denaro.
Il Collegio ritiene applicabile tale criterio, in chiave analogica e nell’osservanza delle norme di cui agli artt. 2043, 2056 e 1226 c. c., anche nelle ipotesi di temporanea occupazione illegittima di un bene altrui, posta in essere dall’Amministrazione nel corso di un procedimento non seguito dall’adozione di un valido ed efficace decreto di esproprio ovvero definito mediante un accordo di cessione ovvero, ancora, tramite l’adozione di un provvedimento di acquisizione sanante del bene ex art. 42-bis D. P. R. 327/2001 al patrimonio indisponibile del Comune.
Anche in tali ipotesi, invero, risulta configurabile il mancato godimento di un bene, quale il fondo interessato dalla occupazione illegittima posta in essere dall’Amministrazione comunale procedente, usualmente oggetto di un impiego remunerativo e proficuo da parte del titolare del diritto dominicale, in termini difformi dalla funzione assolta ex se dal bene-denaro, lungi dalla soddisfazione di esigenze ed aspirazioni personali.
Il pregiudizio economico sofferto dal titolare del diritto di proprietà su un bene immobile oggetto di occupazione sine titulo, inoltre, può ritenersi suffragato sul piano probatorio – sebbene in assenza dell’allegazione di ulteriori e più specifici elementi che dimostrino l’illecito perpetrato dall’Amministrazione – in ragione dell’argomento di ordine sistematico che si ricava dal disposto di cui all’art. 50, comma 1 D. P. R. 327/2001.
Il criterio di liquidazione preventiva e forfetaria del pregiudizio economico prescritto per le fattispecie di cui all’art. 22-bis D. P. R. 327/2001, infatti, assume quale presupposto la inevitabile lesione patrimoniale che consegue al venir meno del godimento del bene già nella disponibilità del titolare del diritto dominicale, successivamente attinto dall’Amministrazione comunale.
D’altronde, la costante giurisprudenza amministrativa, in senso conforme alle pronunce rese in sede civile di legittimità, ha ritenuto risarcibile il danno sofferto dal proprietario di un fondo interessato da una occupazione connessa ad un procedimento di esproprio non definito ovvero concluso mediante l’adozione di un atto poi caducato, anche nelle ipotesi di allegazione, quale solo pregiudizio sotteso alla domanda risarcitoria, della compressione della facoltà di godimento del cespite.
L’applicazione del meccanismo probatorio delle presunzioni semplici di cui all’art. 2729 c. c. nelle fattispecie assimilabili al caso di specie, peraltro, non preclude al titolare del diritto dominicale sul fondo oggetto di occupazione sine titulo, che si ritenga danneggiato dalla apprensione del fondo alla mano pubblica, l’allegazione, in termini maggiormente puntuali e significativi, di conseguenze economiche rispetto alla lesione che deriva dalla perdita transeunte della facoltà di godimento dell’area.
Analogamente, l’Amministrazione procedente potrà dedurre ex adverso circostanze ovvero avvenimenti idonei a confutare la sussistenza del pregiudizio prospettato dalla proprietà ovvero a ridimensionarne l’entità (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 13 agosto 2019, n. 5703; Cons. Stato, Sez. IV, 27 maggio 2019, n. 3428; Cons. Stato, Sez. IV, 9 maggio 2018, n. 2765).
Il Collegio, in punto di quantificazione del danno patrimoniale quale comprovato alla stregua della allegazione e della prova della lesione derivante dalla occupazione sine titulo, rileva come il parametro di liquidazione del 5% prescritto dall’art. 42-bis, comma 3 D. P. R. 327/2001 – già applicato, a titolo equitativo ex art. 1226 c. c., dal richiamato e indirizzo pretorio – non possa essere mutuato per la determinazione della somma dovuta a titolo di risarcimento del danno nelle ipotesi di restituzione del bene immobile al titolare del diritto dominicale successivamente alla occupazione illegittima, posto che il dato testuale della richiamata disposizione del T. U. Espr. rende evidente come la norma non risulti applicabile ad una fattispecie sussumibile nel paradigma dell’illecito aquiliano ex art. 2043 c. c.
La norma di cui all’art. 42-bis, comma 3 D. P. R. 327/2001, invero, integra esclusivamente la disciplina che presiede alla adozione del provvedimento di acquisizione alla mano pubblica del bene già interessato da una occupazione senza titolo posta in essere dalla Amministrazione, alla cui esclusiva eventualità viene correlata, in termini evidenti, la liquidazione forfettaria del danno che consegue alla condotta illecita perpetrata dall’Ente comunale.
Il rilievo rinviene corrispondenza in elementi di ordine sistematico, che escludono l’applicazione analogica del parametro del 5% annuo computato sul valore venale del bene utilizzato, onde determinare, nelle fattispecie assimilabili a quella oggetto di giudizio, il risarcimento conseguente alla condotta illecita dell’Amministrazione comunale quante volte non sia successivamente intervenuta l’adozione del provvedimento di acquisizione sanante al patrimonio indisponibile del Comune di cui all’art. 42-bis, comma 1 D. P. R. 327/2001.
Come precisato dalla giurisprudenza recenziore del Collegio in composizione nomofilattica, infatti, l’art. 42-bis D. P. R. 327/2001 reca – in termini tipici, esaustivi e tassativi – la disciplina di un procedimento espropriativo speciale, configurato quale procedimento di (ri)composizione del contrasto tra l’interesse del proprietario e l’interesse generale, sotteso alla adozione del provvedimento di acquisizione sanante, che importa la cessazione dell’illecito permanente ascrivibile all’Amministrazione comunale (cfr. Cons. Stato, A. P., 20 gennaio 2020, n. 4).
La norma di cui all’art. 42-bis, comma 3 D. P. R. 327/2001, pertanto, risulta non suscettibile di applicazione analogica, in quanto disciplina una fattispecie complessa, nella quale alla occupazione illegittima, quale illecito perpetrato dall’Amministrazione, non segue l’adozione del provvedimento di acquisizione sanante al patrimonio indisponibile del Comune, che riconduca la fattispecie espropriativa nell’alveo della legalità e che importi il riconoscimento al proprietario dell’area di un importo a titolo di indennizzo, in uno al ristoro conseguente alla iniziale condotta contra ius.
La Sezione, inoltre, rileva come l’applicazione automatica, sebbene in via analogica, del criterio di computo ex art. 42-bis, comma 3 D. P. R. 327/2001 nel caso di specie – nel quale risulta assente l’adozione di un provvedimento di acquisizione sanante successiva alla occupazione illegittima del fondo di proprietà di parte appellante – deve essere esclusa in ragione della funzione sottesa al criterio di interpretazione enucleato nell’art. 12, comma 2 delle Disposizioni sulla legge in generale, che postula la sussistenza di una lacuna nella normativa che disciplina la fattispecie oggetto di giudizio.
La determinazione assunta dall’Amministrazione procedente di attendere alla restituzione dell’area già occupata al titolare del diritto dominicale sul bene immobile, piuttosto, configura la condotta dell’Ente comunale quale illecito aquiliano ex art. 2043 c. c., che importa l’applicazione integrale delle disposizioni che presiedono alla disciplina della responsabilità extracontrattuale.
D’altra parte, il criterio di computo dell’indennizzo per il pregiudizio patrimoniale di cui all’art. 42-bis, comma 3 D. P. R. 327/2001 viene previsto in ragione dell’adeguamento della situazione di diritto a quella di fatto, nell’osservanza del principio di legalità sostanziale, quale più volte enunciato nella giurisprudenza della Corte EDU, sì da differenziare l’ordinario procedimento di espropriazione dall’istituto contemplato dalla richiamata disposizione del T. U. Espr., in guisa da incentivare l’espletamento del primo e da assicurare il rapporto regola-eccezione tra le distinte serie procedimentali.
La ricognizione in chiave teleologica della disciplina approntata dal T. U. Espr., pertanto, conduce ad escludere l’applicazione automatica del parametro di liquidazione forfetaria di cui all’art. 42-bis, comma 3 D. P. R. 327/2001, al di fuori delle fattispecie sussumibili nella stessa norma e, segnatamente, con riferimento ad un’ordinaria azione risarcitoria proposta per la illegittima compressione di una tra le facoltà che integrano il diritto dominicale sul fondo oggetto di apprensione illegittima da parte dell’Amministrazione.
Nella fattispecie oggetto di giudizio, l’occupazione del fondo di proprietà di parte appellante è stata seguita dalla restituzione dell’area al titolare del diritto dominicale in luogo della adozione del provvedimento di acquisizione sanante ex art. 42-bis D. P. R. 327/2001.
Il Collegio, pertanto, rileva come la liquidazione della somma dovuta a titolo di risarcimento per la iniziale condotta illecita posta in essere dall’Amministrazione, sussumibile nel paradigma dell’illecito aquiliano ex art. 2043 c. c., deve avvenire alla stregua della valutazione equitativa prevista dall’art. 1226 c. c., quale richiamato dall’art. 2056 c. c., lungi dall’applicazione in via analogica degli artt. 50 e 42-bis, comma 3 D. P. R. 327/2001, che assumono quale oggetto fattispecie distinte e differenti.
Tra i molteplici criteri che consentono tale valutazione equitativa assumono precipuo rilievo il c. d. valore locativo ovvero il saggio legale annuale di interessi computato sul valore venale del bene, specialmente nelle ipotesi della proposizione di una domanda risarcitoria per il pregiudizio patrimoniale conseguente alla perdita della disponibilità di un bene immobile, sebbene ragioni di economia dei mezzi processuali e di correntezza amministrativa rendano preferibile il ricorso ad un criterio equitativo puro, ancorato alla esemplificativa indicazione dei criteri già richiamati.
La somma riconosciuta dal Collegio a titolo di risarcimento del danno patrimoniale riveniente dalla occupazione sine titulo della porzione del fondo oggetto di apprensione illegittima da parte della Amministrazione, quantificata al valore attuale ed in applicazione del criterio della taxatio rei, pertanto, comprende gli accessori ed esclude la configurazione di una lesione con riferimento alla parte del bene immobile non interessata dalla condotta illecita posta in essere dall’Ente comunale, attesa la configurazione del cespite, secondo la prospettazione di parte appellante, quale “unicum sotto il profilo sia funzionale che economico“.
Avv. Marco Bruno Fornaciari