La vendita di un terreno avvenuta prima della apertura di una formale procedura ablatoria mediante dichiarazione di pubblica utilità non può essere assimilata alla cessione-volontaria prevista dalla normativa sugli espropri, e ciò per la semplice ragione che l’atto traslativo non potrebbe in tale caso espletare la sua funzione tipica di strumento di acquisizione della proprietà immobiliare in capo all’amministrazione espropriante, alternativo rispetto al provvedimento amministrativo autoritativo costituito dal decreto di esproprio (Cons. Stato, Sez. IV, 30 ottobre 2019, n. 7445).
Il Collegio rammenta come elementi costitutivi della cessione-volontaria ex art. 12 della l. n. 865 del 1971 siano l’inserimento del negozio nell’ambito di un procedimento di espropriazione per pubblica utilità, nel cui contesto la cessione-volontaria assolve alla peculiare funzione dell’acquisizione del bene da parte dell’espropriante, quale strumento alternativo all’ablazione d’autorità mediante decreto di esproprio; la preesistenza non soltanto di una dichiarazione di pubblica utilità ancora efficace, ma anche di un subprocedimento di determinazione dell’indennità e delle relative offerte ed accettazione, con la sequenza e le modalità previste dall’art. 12 della l. n. 865 del 1971; il prezzo di trasferimento volontario correlato ai parametri di legge stabiliti, inderogabilmente, per la determinazione dell’indennità di espropriazione.
Ne consegue che non è possibile ricondurre al negozio traslativo gli effetti tipici della cessione-volontaria, quale l’estinzione dei diritti reali o personali gravanti sul bene acquisito dall’amministrazione, quante volte ricorra l’assenza dei detti requisiti, atteso che l’amministrazione potrebbe aver inteso perseguire una finalità di pubblico interesse tramite un ordinario contratto di compravendita.
Il collegamento tra il rapporto contrattuale ed il procedimento amministrativo di espropriazione per pubblica utilità che vi ha dato origine, pertanto, in quanto essenziale momento genetico e fondamentale presupposto del trasferimento immobiliare, integra un presupposto indispensabile per la configurazione della cessione-volontaria e per la produzione dei suoi effetti tipici. La cessione-volontaria necessita dell’apertura di una formale procedura espropriativa, senza la cui apertura il negozio traslativo non potrebbe espletare la sua funzione tipica di strumento di acquisizione della proprietà immobiliare in capo all’amministrazione espropriante, alternativo rispetto al provvedimento amministrativo autoritativo costituito dal decreto di esproprio.
La cessione-volontaria costituisce dunque una modalità alternativa di realizzazione del procedimento espropriativo mediante l’utilizzo di uno strumento privatistico, peraltro soggetto per taluni aspetti – tra cui la determinazione del prezzo di cessione – alla disciplina contenuta in norme di legge imperative, come chiarito dalla giurisprudenza precedente del Collegio ed anche dalla Corte di Cassazione in composizione nomofilattica (Cons. Stato, Sez. IV, 7 aprile 2015, n. 1768; id. 3 marzo 2015, n. 1035; Cass., S.U., 13 febbraio 2007, n. 3040), integra quindi la causa del contratto pubblicistico di cessione-volontaria di cui all’art. 12 della l. n. 865 del 1971.
Nell’ambito di questa cornice normativa, e nel rispetto dei presupposti suindicati, la conclusione del contratto di cessione-volontaria rimane comunque soggetta alla disciplina del contratto privatistico, non essendo caratterizzata dalla posizione di preminenza dell’amministrazione pubblica espropriante, bensì dall’incontro paritetico delle volontà (Cass. 17 novembre 2000, n. 14901).
Avv. Marco Bruno Fornaciari