I fatti sui quali si fonda la informazione-antimafia-interdittiva possono anche essere risalenti nel tempo nel caso in cui vadano a comporre un quadro indiziario complessivo, dal quale possa ritenersi attendibile l’esistenza di un condizionamento da parte della criminalità organizzata (Cons. Stato, Sez. III, 2 gennaio 2020, n. 2).
In riferimento alla fattispecie oggetto del giudizio, il Collegio precisa in primo luogo di non condividere le conclusioni che hanno condotto il Tar Calabria, sede di Catanzaro, ad accogliere il ricorso proposto dalla società appellata, attinta da una informazione-antimafia-interdittiva emessa dalla Prefettura della Provincia di Crotone sulla scorta degli elementi mutuati da una ordinanza di applicazione di misura cautelare disposta ex art. 292 c. p. p. dal GIP del Tribunale di Catanzaro.
Ad avviso della Sezione gli elementi fattuali accertati nell’ambito della relativa operazione di Polizia Giudiziaria, di durata e profondità necessariamente maggiori rispetto agli accertamenti espletati in sede di verificazione disposta dal giudice di prime cure, non consentono di escludere il tentativo di infiltrazione delle consorterie criminali nella società interessata dalla misura di prevenzione.
Il Giudice di appello, infatti, ricorda come la informazione-antimafia-interdittiva sottenda una valutazione di carattere discrezionale da parte della autorità prefettizia – alla quale attendere secondo la logica del more probable that not, che importa una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza, suffragato da indizi gravi, precisi e concordanti – quanto al pericolo di infiltrazione criminale dell’operatore economico che ne è attinto, tale da condizionarne la gestione.
Ha osservato ancora la Sezione come, sulla base della propria precedente giurisprudenza, le nozioni riconosciute dal legislatore ex art. 84, comma 3 del d.lgs. n. 159 del 2011 quali elementi fondanti la informazione-antimafia-interdittiva – ovvero “eventuali tentativi” di infiltrazione mafiosa “tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate” – configurano una fattispecie di pericolo, funzionale alla prevenzione di un evento che – desumibile da elementi non meramente immaginari o aleatori – sia anche soltanto potenziale e non attuale, alla stregua del paradigma del diritto della prevenzione.
Oltretutto, il richiamato riferimento legislativo alla esistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa della impresa attinta dalla informazione-antimafia-interdittiva – anche qualora supportato da elementi diversi da quelli tipizzati ex art. 84, comma 4, lett. a), b), c) ed f) del d.lgs. n. 159 del 2011, ma oggetto di riscontro casistico nel corso degli accertamenti disposti – integra una clausola generale, aperta, sebbene non costituisca una norma in bianco né, tanto meno, una delega all’arbitrio della autorità amministrativa, imprevedibile per il cittadino e collocata all’infuori del perimetro del sindacato giurisdizionale.
Il pericolo di infiltrazione della criminalità organizzata negli operatori economici, pertanto, costituisce, anche sulla scorta della giurisprudenza sovranazionale, il fondamento ed, al contempo, il limite del potere prefettizio, delimitandone la discrezionalità, quale equilibrato apprezzamento del rischio della detta permeazione in chiave di prevenzione – informato ai corretti canoni di inferenza logica – piuttosto che quale ponderazione di un interesse pubblico primario rispetto ad altri interessi, secondo la accezione tradizionale e meno perspicua.
Del resto, l’annullamento di qualsivoglia discrezionalità nei termini indicati, implicato dall’ancoraggio della informazione-antimafia-interdittiva a soli elementi tipici prefigurati in sede legislativa, configurerebbe un provvedimento vincolato, che – fondato, sul versante opposto, su automatismi o presunzioni ex lege – non assolverebbe alla massima efficacia adeguatrice al caso concreto che una norma elastica deve assicurare in siffatta materia (cfr. CEDU, 23 febbraio 2017, De Tommaso c. Italia) e condurrebbe ad una deresponsabilizzazione della stessa autorità amministrativa, non conforme ai princìpi di buon andamento e di imparzialità che devono informare la attività della P. A. (art. 97 Cost.).
Con la recente sentenza del 27 febbraio 2019, n. 24, peraltro, la Corte costituzionale ha rilevato come, al di fuori della materia penale, anche la “interpretazione, fornita da una giurisprudenza costante e uniforme, di disposizioni legislative pure caratterizzate dall’uso di clausole generali” – o in ogni caso recanti formule connotate da un certo grado di imprecisione originario – possa assolvere alla esigenza di predeterminazione delle condizioni idonee a legittimare la adozione di una misura limitativa di un diritto assistito da guarentigie alla latitudine costituzionale e convenzionale, quante volte la sua applicazione possa essere oggetto di ragionevole previsione da parte del soggetto prevenuto.
Il sindacato del G. A. sull’esercizio del potere prefettizio nella emissione della informazione-antimafia-interdittiva – assimilabile alla struttura bifasica assunta dalla valutazione propedeutica alle misure di sicurezza personale disposte nella sede penale – ha per oggetto la gravità del quadro indiziario sotteso all’apprezzamento della autorità amministrativa in ordine al pericolo di infiltrazione mafiosa ed accede ai profili della ragionevolezza e della proporzionalità della prognosi inferenziale, condotta sulla base di elementi sintomatico-presuntivi, considerati in modo unitario e secondo il richiamato criterio probabilistico.
A tale fine, il Collegio richiama la propria precedente giurisprudenza in virtù della quale la amministrazione può attribuire rilievo ai rapporti di parentela che intercorrano tra gli organi della impresa attinta dalla informazione-antimafia-interdittiva e familiari che risultino affiliati, organici o contigui alle consorterie criminali ogniqualvolta tali relazioni – per la loro natura, intensità o per altre caratteristiche concrete – lascino ritenere – alla stregua della logica del more probable that not, giammai della certezza oltre ogni ragionevole dubbio – la sussistenza di una conduzione collettiva e di una regia familiare dell’operatore economico ovvero il condizionamento mafioso, anche indiretto, delle sue attività per il tramite della famiglia.
La doverosa considerazione della struttura clanica assunta dalla complessa organizzazione della mafia – che assume la famiglia quale nucleo fondante, a livello particellare – lasciano desumere, infatti, la influenza reciproca di comportamenti ed i legami quanto meno di soggezione o di tolleranza che si registrano all’interno della famiglia mafiosa – tali che al suo interno la influenza del capofamiglia della associazione si riflette anche sul soggetto non interessato dal pregiudizio mafioso, sebbene nolente – in guisa da consentire alla amministrazione di evidenziare l’avvenuto accertamento della esistenza, su un’area più o meno estesa, del controllo di una famiglia e del sostanziale coinvolgimento dei componenti che vi sono organici.
La Sezione, infine, chiarisce come il mero decorso del tempo rispetto ai fatti che supportano la informazione-antimafia-interdittiva non importa ex se il venir meno del requisito della attualità del tentativo di infiltrazione mafiosa e la conseguente decadenza delle vicende oggetto della misura ostativa – o la loro deduzione quale materiale istruttorio di un inedito provvedimento inabilitante – che possa condurre alla sua rimozione, attesa la necessità a tale ultimo fine della sopravvenienza e del consolidamento di nuovi fatti positivi che dimostrino il carattere irreversibile dell’affrancamento della impresa attinta dalla misura interdittiva dal condizionamento delle consorterie criminali.
Avv. Marco Bruno Fornaciari