In tema di disciplina dell’uso del territorio, il legislatore non deve trascurare la necessità di dare risposta al diritto di disporre di spazi adeguati per poter concretamente esercitare la libertà-religiosa, diritto compreso nelle garanzie di cui all’art. 19 Cost. (Corte cost., 5 dicembre 2019, n. 254).
La Corte costituzionale, in sede di sindacato di legittimità dell’art. 72, comma 2 della legge della Regione Lombardia 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) e con il conforto della giurisprudenza costituzionale, precisa come la libertà-religiosa garantita dall’art. 19 Cost. è un diritto inviolabile, tutelato al massimo grado dalla Costituzione. La garanzia costituzionale ha valenza anche “positiva”, giacché il principio di laicità che contraddistingue l’ordinamento repubblicano è da intendersi, secondo l’accezione che la giurisprudenza costituzionale ne ha dato, non come indifferenza dello Stato di fronte all’esperienza religiosa, bensì come tutela del pluralismo, a sostegno della massima espansione della libertà di tutti, secondo criteri di imparzialità.
La libertà di culto, quale aspetto essenziale della libertà-religiosa che lo stesso art. 19 Cost. garantisce specificamente con il solo limite dei riti contrari al buon costume, pertanto, deve essere assicurato ugualmente a tutte le confessioni religiose, a prescindere dall’avvenuta stipulazione o meno dell’intesa con lo Stato e dalla loro condizione di minoranza, e si traduce anche nel diritto di disporre di spazi adeguati per poterla concretamente esercitare mediante spazi pubblici previsti e messi a disposizione per le attività religiose dalle autorità pubbliche, senza ostacoli ingiustificati all’esercizio del culto nei luoghi privati e senza discriminazioni tra le confessioni nell’accesso agli spazi pubblici.
Naturalmente, nel destinare spazi pubblici alle sedi di attività di culto delle diverse confessioni, regioni e comuni devono tener conto della loro presenza nel territorio di riferimento, dal momento che, in questo contesto, il divieto di discriminazione «non vuol dire […] che a tutte le confessioni debba assicurarsi un’eguale porzione dei contributi o degli spazi disponibili: come è naturale allorché si distribuiscano utilità limitate, quali le sovvenzioni pubbliche o la facoltà di consumare suolo, si dovranno valutare tutti i pertinenti interessi pubblici e si dovrà dare adeguato rilievo all’entità della presenza sul territorio dell’una o dell’altra confessione, alla rispettiva consistenza e incidenza sociale e alle esigenze di culto riscontrate nella popolazione» (Corte cost., 24 marzo 2016, n. 63).
Ricostruito il contesto normativo di riferimento, il Collegio dichiara la illegittimità costituzionale dell’art. 72, comma 2 della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005, in riferimento ai parametri di cui agli artt. 2, 3, comma 1 e 19 Cost., atteso che la detta norma – in ragione della quale risultavano soggetti alla preventiva localizzazione nel piano delle attrezzature religiose (P. A. R.) tutte le attrezzature aventi destinazione religiosa – non rispondeva alla duplice condizione che deve assistere la previsione – ad opera della legislazione regionale in materia di governo del territorio – di uno speciale piano dedicato alle attrezzature religiose, riconducibile al modello della pianificazione urbanistica di settore, ovvero il corretto insediamento nel territorio comunale delle attrezzature religiose aventi impatto urbanistico; e la necessità di favorire l’apertura di luoghi di culto destinati alle diverse comunità religiose, in ragione del peculiare rango costituzionale della libertà-religiosa e di culto.
Anche la questione di legittimità costituzionale relativa all’art. 72, comma 5, secondo periodo, della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005, sollevata in riferimento ai richiamati parametri costituzionali, viene ritenuta fondata, posto che la contestualità di approvazione del P. A. R. e del nuovo piano di governo del territorio (P. G. T.), o di una sua variante generale, imposta dalla norma de qua nell’ipotesi di decorso del termine di diciotto mesi dall’entrata in vigore della medesima legge, rendeva del tutto incerti ed aleatori i tempi di decisione delle istanze di insediamento di attrezzature religiose, in considerazione carattere assolutamente discrezionale per quanto riguarda l’an ed il quando dell’intervento del potere del comune di procedere alla formazione del P. G. T. o di una sua variante generale, condizione necessaria per poter adottare il PAR (a sua volta condizione perché la struttura possa essere autorizzata).
La norma censurata ostacolava la programmazione delle attrezzature religiose da parte dei comuni – a loro volta condizionati nell’esercizio della loro autonomia amministrativa in materia urbanistica – e determinava una forte compressione della libertà-religiosa, tale da negare finanche la libertà di culto, senza che a ciò corrispondesse alcun reale interesse di buon governo del territorio.
Avv. Marco Bruno Fornaciari