Al fine di individuare il contenuto di una servitù pubblica su suolo privato, non può darsi rilevanza prevalente alle prescrizioni contenute nello strumento urbanistico in relazione alle aree aventi destinazione omogenea rispetto alle finalità pubbliche cui la servitù è preordinata, atteso che nella specie non si tratta di definire il regime urbanistico del suolo, ma piuttosto di individuare i limiti posti al diritto di proprietà per il perseguimento dell’interesse pubblico in ragione del quale la servitù è stata imposta. In tale prospettiva, assume rilievo decisivo la volontà delle parti quale risultante dal titolo costitutivo della servitù, che al tempo stesso costituisce la fonte e segna il limite del sacrificio ammissibile del diritto dominicale. Pertanto, non è consentito al Comune, in favore del quale sia stata costituita una servitù di uso pubblico su suolo privato condominiale, di autorizzarne l’uso in via esclusiva in favore di altro soggetto privato prescindendo dal necessario consenso dei proprietari del suolo (1)
La sentenza dichiarativa del sopravvenuto difetto di interesse alla decisione nel merito della causa può essere pronunciata soltanto al verificarsi di una situazione di fatto o di diritto nuova, che comunque muta radicalmente la situazione esistente al momento della proposizione del ricorso e che sia tale da rendere certa e definitiva l’inutilità della sentenza nel merito per aver fatto venir meno per il ricorrente ovvero per l’appellante, qualsiasi residua utilità della pronuncia sulla domanda azionata, foss’anche soltanto strumentale o morale (2) (Cons. Stato, Sez. II, 12 maggio 2020, n. 2999).
(1) L’art. 825 c. c., rubricato nei “Diritti demaniali su beni altrui“, reca la disciplina in chiave unitaria dei princìpi informatori dell’istituto delle c. d. “servitù di uso pubblico“, correntemente definite quali “diritti di uso pubblico” – in quanto sussumibili nel più ampio novero dei diritti reali pubblici di godimento costituiti su immobili di proprietà privata – concettualmente distinti tra le c. d. servitù prediali pubbliche ed i diritti (scilicet, servitù) di uso pubblico.
Le servitù prediali pubbliche configurano particolari diritti reali – spettanti alla P. A. e gravanti su beni di proprietà privata in quanto “costituiti per l’utilità di alcuno dei beni” che integrano il demanio pubblico (art. 822 s.) ovvero che risultano soggetti al medesimo regime giuridico (art. 825, periodo III) – piuttosto che diritti ovvero servitù di uso pubblico, costituiti in capo ad un Ente pubblico “per il conseguimento di fini di pubblico interesse corrispondenti a quelli a cui servono i beni medesimi“, benché in assenza di un rapporto funzionale tra le res (art. 825, ultimo periodo).
La costituzione di un diritto di uso pubblico su un bene di proprietà privata – quali le c. d. strade vicinali di cui all’All. F, artt. 1, 9, 18, 19, 20, 51, 84 del R. D. n. 2248/1865 ed al D. Lgt. n. 1146/1918 – ammette, pertanto, una determinata collettività alla parziale utilizzazione della res, che, peraltro, permane nella proprietà del soggetto privato, sebbene nel contempo destinata al perseguimento dello stesso pubblico interesse, in guisa conforme all’art. 42 Cost. e quale obbligo riveniente dall’ordinamento giuridico ed integrante lo “statuto della proprietà privata” (art. 832 ss. c. c.).
L’Ente pubblico, dunque, risulta titolare di un mero diritto reale parziario su un bene privato, sul quale può esercitare unicamente le facoltà rese necessarie per garantirne ed assicurarne l’uso pubblico da parte della collettività e per la cui tutela risulta esperibile, in sede di giurisdizione ordinaria ed in ragione del rinvio operato dall’art. 825 c. c. all’art. 823 c. c., l’intera gamma dei mezzi ordinari contemplati nell’ordinamento giuridico per la difesa del diritto di servitù e del possesso.
D’altronde, l’Ente pubblico violerebbe il diritto di proprietà del privato, del pari funzionalizzato, quante volte disponesse a favore di un singolo il godimento in via esclusiva del bene di cui non risulti integralmente titolare, ma in ordine al quale eserciti unicamente un diritto parziario finalizzato al perseguimento del pubblico interesse in ragione del diritto demaniale ovvero della servitù di uso pubblico (“nemo plus iuris in alium transferre potest, quam ipse habet“, D. 50.17.54 – Ulpianus, liber XLVI, Ad edictum).
L’ammissibilità dell’uso eccezionale da parte di un terzo di un bene asservito all’uso pubblico – che la giurisprudenza consolidata identificato anche con un’occupazione soltanto temporanea della res da parte di colui che se ne avvalga uti singulus – in quanto consentito dall’Amministrazione a prescindere dalla volontà del privato proprietario non rinviene corrispondenza nel disposto degli artt. 38 e 39 della L. n. 507/1993, recante, tra l’altro, la “revisione ed armonizzazione della tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche dei comuni e delle province“.
La giurisprudenza civile di legittimità, invero, ha precisato come la parificazione delle aree demaniali o del patrimonio indisponibile a quelle private soggette a servitù di uso pubblico operi ai soli fini dell’applicazione del canone imposto dall’erario per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche e rinvenga la propria ratio nella sottrazione della superficie occupata all’uso pubblico che ne invera la destinazione, in guisa da configurare la debenza della tassa in parola quale giustificato corrispettivo della limitazione apportata al godimento della collettività (Cass., S. U., 8 marzo 1999, n. 158; Id., 8 luglio 1998, n. 6633).
L’assimilazione di cui alle richiamate disposizioni della L. n. 507/1993 deve essere riferita, dunque, al solo piano dei rapporti tributari, in disparte il riconoscimento in capo al Comune di disporre la prestazione della tassa da parte del soggetto che occupi abusivamente, ovvero in virtù di contratto stipulato con il privato proprietario, gli spazi oggetto di uso pubblico, in tesi anche mediante il condizionamento del diritto dello stesso privato proprietario di concedere a terzi l’uso di porzioni dell’area.
Risulta escluso, pertanto, il riconoscimento in capo all’Ente pubblico di un autonomo potere concessorio, assolutamente incompatibile con il diritto dominicale del privato, sebbene limitato dall’esistenza del diritto demaniale ovvero della servitù di uso pubblico, in disparte l’ipotesi di un’espressa e diversa previsione nel titolo costitutivo della servitù pubblica di passaggio.
La natura del diritto ovvero della servitù di uso pubblico, peraltro, importa il riconoscimento della legittimazione ad azionarne la tutela in sede giudiziale, uti singulus e mediante il ricorso ai mezzi ordinari di tutela contemplati dall’ordinamento giuridico, in capo a ciascun cittadino appartenente alla collettività alla quale riferire l’uso pubblico (cfr., ex multis, Cass. Civ., Sez. II, 13 giugno 2019, n. 15931).
I diritti ovvero le servitù di uso pubblico, infatti, implicano un uso indiscriminato del fondo servente da parte dei singoli e postulano un’accezione ampia di publica utilitas, intesa quale oggettiva idoneità del bene privato a soddisfare non soltanto una pura e semplice necessità, ma anche una mera comodità, espressa da una collettività indeterminata di persone – considerate uti cives – quale esigenza comune (cfr. Cass. Civ., Sez. II, 10 gennaio 2011, n. 333).
Il Collegio precisa come la prassi ammetta distinti modi di costituzione di un diritto demaniale ovvero di una servitù di uso pubblico, che, d’altra parte, annovera tra le categorie più importanti e di maggiore applicazione pratica quella dell’uso pubblico di passaggio, a sua volta ripartita nella sottoclasse del passaggio sulle vie vicinali di uso pubblico ed in quella del transito su spiazzi, vicoli, corti di proprietà privata esistenti nelle città e negli agglomerati urbani.
La stipulazione di una convenzione tra l’Ente pubblico ed i privati, come avvenuto nella fattispecie oggetto di giudizio, non esaurisce, invero, il novero dei modi di costituzione di un diritto demaniale ovvero di una servitù di uso pubblico ammessi nell’ordinamento giuridico, che contempla, inoltre, la costituzione del diritto reale parziario per intervenuta usucapione da parte di una collettività indifferenziata di soggetti, imputata nel proprio effetto acquisitivo alla Pubblica Amministrazione a ciò competente quale ente esponenziale dei relativi diritti ed interessi (artt. 1158 ss. c. c.), nonché per c. d. dicatio ad patriam.
Tale ultima ipotesi ricorre, segnatamente, quante volte il proprietario del bene immobile oggetto del diritto reale parziario, sebbene non intenda costituire direttamente un diritto demaniale ovvero una servitù di uso pubblico, ponga la res a disposizione della collettività – volontariamente e con carattere di continuità, che esclude ogni precarietà ovvero spirito di tolleranza – in guisa da assoggettare lo stesso bene al correlativo uso, al fine di ovviare ad un’esigenza comune ai membri di tale collettività uti cives, in disparte i motivi sottesi al comportamento del privato, la sua spontaneità ovvero lo spirito che lo anima (cfr., ex multis, Cass. Civ., Sez. I, 11 marzo 2016, n. 4851; Cons. Stato, Sez. V, 24 maggio 2007, n. 2618).
Il diritto dominicale del privato sul bene gravato da una servitù prediale pubblica, d’altra parte, risulta limitato in ragione della pubblica utilità posta a vantaggio di un bene demaniale, in guisa analoga all’imposizione di un peso sopra il fondo servente in ragione della istituzione di una servitù prediale (artt. 1027 ss. c. c.) e sebbene la disciplina che presiede ad una servitù prediale pubblica sia rinvenibile prevalentemente in leggi speciali, che ne implicano l’istituzione sub specie di servitù coattiva (art. 1032, comma 1 c. c.) mediante l’emanazione di un provvedimento amministrativo.
Il rapporto di funzionalità che può avvincere un bene pubblico ed un bene privato, invero, rende ragione della previsione, nella stessa disciplina di settore di diritto pubblico e per talune categorie di beni, della costituzione in favore del primo di un diritto reale parziario, sotto specie di servitù coattiva, quale costituita, senza pretesa di esaustività, sulle funicolari aeree, sugli elettrodotti, sui fondi posti ai lati ovvero sottostanti le strade pubbliche per lo scolo delle acque ovvero, ancora, le servitù militari o quelle aeronautiche.
La Sezione, con riferimento al caso di specie, esclude che la servitù di uso pubblico costituita sull’area di proprietà del condominio appellante integri una servitù prediale pubblica, sì da consentire all’Amministrazione appellata il rilascio in favore del terzo appellato dell’autorizzazione – dapprima in via precaria e temporale e, successivamente, più volte reiterata – all’occupazione del plateatico, peraltro già gravato dalla imposizione di un vincolo ad uso pubblico quale standard di piano e destinato a “verde pubblico“, giusta l’art. 35, comma 6 delle NTA dell’allora vigente P. R.G. del Comune.
L’adibizione dell’area di proprietà del condominio appellante a standard urbanistico, invero, integra una c. d. monetizzazione dell’opera a scomputo degli oneri di urbanizzazione prescritti dall’art. 3 della L. 47/1985 – applicabile ratione temporis ed oggi sostituito dagli artt. 12 ss. del D. P. R. n. 380/2001 – e dagli artt. 81 ss. della L. n. 61/1985 s. m. i.
La convenzione stipulata tra l’Ente pubblico ed i privati, peraltro, non prefigurava – secondo l’id quod plerumque accidit sancito anche dall’art. 28 della L. n. 1150/1942, come modificato dalla L. n. 765/1967 – l’obbligo di trasferire, in proprietà al Comune, il bene immobile realizzato dal privato a scomputo degli oneri predetti, ascritto, d’altra parte, al patrimonio indisponibile dell’Ente locale e, dunque, soggetto all’applicazione delle norme di cui agli artt. 826 ed 828 c. c., piuttosto che al demanio comunale.
(2) Il Collegio rileva come il decorso del tempo durante il quale il provvedimento gravato in sede giurisdizionale ha dispiegato i propri effetti non importi l’estinzione dell’originario interesse a ricorrere dell’appellante (art. 100 c. p. c.; art. 39, comma 1, c. p. a.), in ragione dell’effetto conformativo del successivo esercizio dell’attività amministrativa riveniente da una sentenza in tesi favorevole al ricorrente, nonché quale presupposto di ordine strumentale alla proposizione di un’ulteriore azione giudiziale tesa a conseguire il risarcimento degli eventuali danni subiti (art. 30, comma 2 c. p. a.).
La Sezione, peraltro, precisa come la sussistenza dei presupposti necessari per la pronuncia di una sentenza dichiarativa del sopravvenuto difetto di interesse del ricorrente ovvero dell’appellante alla decisione nel merito della causa, come definiti nel principio di diritto richiamato in epigrafe, richieda una valutazione casistica, informata a criteri rigorosi e restrittivi, onde impedire che la preclusione dell’esame del merito della controversia trascenda nell’inammissibile elusione dell’obbligo del Giudice di provvedere sulla domanda (cfr, ex multi, Cons. Stato, Sez. IV, 8 agosto 2019, n. 5639; Cons. Stato, Sez., III, 19 novembre 2018, n. 6489; Cons. Stato, Sez. V, 27 marzo 2013, n. 1808).
L’adozione, da parte dell’Amministrazione intimata, di provvedimenti di carattere meramente confermativo dell’atto impugnato successivamente alla instaurazione del giudizio di prime cure, pertanto, non importa il sopravvenuto difetto dell’interesse a ricorrere del ricorrente ovvero dell’appellante.
I provvedimenti amministrativi di secondo grado, invero, conseguono ad un’istruttoria rinnovata alla stregua di canoni indefettibilmente ripetitivi, in guisa da escludere qualsiasi connotato di autonomia decisoria nella loro emanazione, nonché assunti motivazionali diversi da quelli sottesi al provvedimento avversato in sede giurisdizionale, in guisa da configurare ad ogni successiva riedizione del provvedimento amministrativo una mera conferma in termini puntuali e tralatizi, come nella fattispecie oggetto di giudizio, dell’omologa azione amministrativa già esperita (Cons. Stato, Sez. V, 6 marzo 1990, n. 259).
La fattispecie oggetto del giudizio definito con la sentenza dedotta in rassegna è congruente con l’indirizzo registrato nella giurisprudenza recenziore in punto di esenzione dell’impugnativa avverso atti meramente confermativi, in quanto adottati dall’Amministrazione senza il previo esperimento di un’istruttoria sostanzialmente nuova rispetto alla precedente e senza un rinnovamento della ponderazione degli interessi coinvolti dall’azione amministrativa.
Il principio della necessaria sussistenza dell’interesse a ricorrere, che avrebbe imposto alla parte appellante di riproporre impugnazioni del pari omologhe per ogni riedizione del provvedimento di autorizzazione, pertanto, risulta temperato quante volte al provvedimento gravato in sede giurisdizionale segua una situazione per natura ripetitiva, ovvero che tenda a riproporsi con le medesime caratteristiche ed in relazione ai medesimi soggetti, onde ovviare ad una inutile proliferazione di giudizi (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 23 marzo 1991, n. 344).
Avv. Marco Bruno Fornaciari