La direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sugli appalti pubblici, che abroga la direttiva 2004/18/CE, come modificata dal regolamento delegato (UE) 2015/2170 della Commissione, del 24 novembre 2015, deve essere interpretata nel senso che osta a una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, che limita al 30% la parte dell’appalto che per la quale l’offerente è autorizzato a ricorrere al subappalto a terzi (CGUE, Sez. V, 26 settembre 2019, C-63/18, Vitali s. p. a.).
La questione pregiudiziale era stata sollevata dal T.a.r. per la Lombardia, Sez. I, ordinanza 19 gennaio 2018, n. 148, secondo cui: “Va rimessa alla Corte di giustizia dell’Unione Europea la questione pregiudiziale se i principi di libertà di stabilimento e di libera prestazione di servizi, di cui agli articoli 49 e 56 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), l’articolo 71 della direttiva 2014/24 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 febbraio 2014, il quale non contempla limitazioni quantitative al subappalto, e il principio eurounitario di proporzionalità, ostino all’applicazione di una normativa nazionale in materia di appalti pubblici, quale quella italiana contenuta nell’articolo 105, comma 2, terzo periodo, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, secondo la quale il subappalto non può superare la quota del 30 per cento dell’importo complessivo del contratto di lavori, servizi o forniture”.
Richiamati gli obiettivi perseguiti con la direttiva 2014/24/UE (cfr. artt. 63, par. 1 e 71, par. 2), analogamente alla abrogata direttiva 2004/18/CE, la Corte precisa come, secondo una giurisprudenza costante, e come risulta dal considerando 78 della detta direttiva, in materia di appalti pubblici, è interesse dell’Unione che l’apertura di un bando di gara alla concorrenza sia la più ampia possibile. Il ricorso al subappalto, pertanto, che può favorire l’accesso delle piccole e medie imprese agli appalti pubblici, contribuisce al perseguimento di tale obiettivo.
Infatti, durante la vigenza della direttiva 2004/18/CE, la Corte ha stabilito che una clausola che impone limitazioni al ricorso a subappaltatori per una parte dell’appalto fissata in maniera astratta in una determinata percentuale dello stesso, a prescindere dalla possibilità di verificare le capacità di eventuali subappaltatori e senza menzione alcuna del carattere essenziale degli incarichi di cui si tratterebbe, è incompatibile con tale direttiva.
Con riferimento alla disciplina che si ricava dall’art. 71 della direttiva 2014/24/UE, più specifica della previgente direttiva 2004/18/CE su alcuni aspetti del subappalto, la Corte precisa che non è dato inferirne la facoltà per gli Stati membri di limitare il ricorso al subappalto ad una parte dell’appalto fissata in maniera astratta ed in una determinata percentuale dello stesso.
A tale conclusione non si può pervenire dall’applicazione del principio di trasparenza, muovendo dalla considerazione che in Italia il subappalto ha da sempre costituito uno degli strumenti di attuazione di intenti criminosi, atteso che, anche supponendo che una restrizione quantitativa al ricorso al subappalto possa essere considerata idonea a contrastare siffatto fenomeno, una restrizione quale quella attuata nel procedimento principale eccede quanto necessario al raggiungimento di tale obiettivo.
La Corte rileva infatti come misure meno restrittive sarebbero idonee a raggiungere l’obiettivo perseguito dal legislatore italiano in conformità ai princìpi di parità di trattamento, di trasparenza e di proporzionalità che devono informare l’attività delle amministrazioni aggiudicatrici durante tutta la procedura, posto che il diritto interno prevede già numerose attività interdittive espressamente finalizzate ad impedire l’accesso alle gare pubbliche alle imprese sospettate di condizionamento mafioso o comunque collegate ad interessi riconducibili alle principali organizzazioni criminali operanti nel Paese.
Avv. Marco Bruno Fornaciari